Il patrimonio enologico Italiano

I VITIGNI AUTOCTONI

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Da sempre gli esperti di vino amano esaltare le peculiarità dei territori. La varietà dei vitigni autoctoni è in Italia ampia quanto in nessun altro paese produttore.

Ogni regione del Bel Paese produce diverse qualità di uva bianca o rossa che viene da qualche momento del passato della storia enologica mondiale. Per dirla con le parole dell’ONU, il patrimonio genetico rappresentato dai vitigni autoctoni italiani è una sorta di bene dell’umanità, un asset unico al servizio dell’intero pianeta.

Dal Pecorino al Greco, dall’Aglianico alla Coda di Volpe, dal Pignoletto al Refosco le varie qualità di uve territoriali la fanno da padrone in Italia. Un patrimonio unico certamente, ma quanto effettivamente valorizzabile nel contesto enologico globalizzato di oggi? Quanto, cioè, piccole o medio-piccole cantine italiane sono in grado con i loro scarsi mezzi finanziari di promuovere in termini di marketing la conoscenza di un vitigno specifico legato al suo territorio? Questa esigenza di politica di marketing si scontra con la realtà del mercato del vino internazionale di oggi.

Si sta formando,infatti, una sorta di specializzazione per vitigno dell’offerta enologica dei diversi paesi protagonisti della globalizzazione. L’Australia è identificata con lo Shiraz, la Nuova Zelanda con il Sauvignon Blanc, il Cile con il Carmenere, l’Oregon con il Pinot Nero, la Spagna con il Tempranillo, l’Alsazia con il Riesling e così via. Insomma si sta formando nella testa del consumatore globale un doppio effetto. Un effetto di semplificazione nella scelta del vino da acquistare: non potendo scegliere tra centinaia di diversi vitigni autoctoni focalizza la sua attenzione su pochi e chiari vitigni associandoli ad uno o comunque pochi paesi produttori.

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E’ un effetto leva di marketing, per dirla con il gergo della finanza, nel senso che le capacità finanziarie di un intero stato vengono messe a disposizione della promozione e della commercializzazione di un unico vitigno, espressione della produzione di un intero paese. La Nuova Zelanda o il Cile, per quanto paesi poco popolati, hanno e avranno sempre maggiori disponibilità economiche per promuovere il loro Sauvignon Blanc o il Carmenere di quante non ne possono avere la provincia di Avellino o la Regione Marche da sole per spingere i propri prodotti del territorio che, peraltro ad aggravare la situazione, raramente sono sintetizzati da un unico vitigno autoctono. La ricchezza dei vitigni specifici italiani rischia così di trasformarsi in una penalizzazione competitiva nel mercato enologico globale contemporaneo.

Ci sono troppi prodotti di nicchia diversi tra loro da dover promuovere e posizionare nella testa del consumatore internazionale, mentre quest’ultimo cerca la semplificazione al momento della scelta di acquisto. Si tratta di un problema concreto della concorrenza in corso nel mercato enologico senza frontiere che si combatte soprattutto sulle tavole dei paesi neoconsumatori come Cina, Messico, India, Russia e Brasile.

Promuovere le troppe varietà autoctone italiane tra i consumatori del nuovo mondo e dei paesi emergenti è davvero una missione non facile. Questi consumatori, nella loro massa, vorrebbero poter scegliere tra pochi uvaggi abbinandoli a un territorio e un paese specifico anche perché non hanno tempo di investire in una selezione complessa tra centinaia di etichette diverse. Ripensare la produzione italiana e l’offerta dei vitigni autoctoni avendo ben presenti le caratteristiche del mercato globale del vino è sicuramente un passaggio inevitabile per i produttori del Bel Paese. Se non vogliono morire nelle nicchie con margini ridotti devono iniziare a comprendere i bisogni di semplificazione del neoconsumatore globale.
(Da: “Alla prova della globalizzazione enologica” di Edoardo Narduzzi)

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